“Fuga di cervelli” in aumento e cambiamento scostante. Nuove situazioni lavorative stanno portando molte risorse valide al di fuori dei nostri confini nazionali. I motivi sono quasi sempre i soliti; ma andiamo a capire nello specifico cosa spinge via e cosa si può fare a riguardo.
L’Italia offre opportunità formative davvero all’avanguardia, siamo inoltre tra più disponibili per quanto riguarda servizi accademici e corsi universitari. Sappiamo quindi che la preparazione (accademica e professionale) non è un problema, sia in termini di fruibilità, sia in termini di costi. In cosa pecchiamo allora?
Il gravissimo problema che porta gli innovatori, i geni e i visionari italiani fuori dai nostri confini è l’impossibilità di trovare un riscontro, il fatto che nel 2023 ancora abbiamo difficoltà ad identificare un Marketer, un Full-Stack Developer, un responsabile delle comunicazioni e via dicendo. Siamo tra i pochissimi Paesi la cui Contrattazione Colletiva Nazionale dei Lavoratori di settore definirebbe tutti questi ruoli sopracitati come programmatori. Non serve una laurea per capire che queste mansioni sono (alcune di più, altre di meno) distanti dal programmatore. Aldilà della qualifica contrattuale, possiamo ben immaginare quante grane possa portare alle aziende l’impossibilità di regolamentare delle figure al loro interno con contratti affidabili e dedicati. Molte delle qualifiche avanguardistiche richiedono spese private e abilitano a mansioni specifiche e molto importanti; un bagaglio di apprendimenti che lo Stato rigetta o non considera, quindi un web-developer/SEO expert potrebbe venir considerato monetariamente come un Social Media Manager. Ed ecco che queste figure spiccano il volo e cercano il loro posto in qualche altro posto.

La migrazione lavorativa non è e non va considerata un male, ma deve derivare dal desiderio personale di crescita, di nuove esperienze e di spazio. Sembra valere per molti Paesi europei, asiatici ed americani, ma non per la nostra bell’Italia, dove consideriamo la migrazione lavorativa una vera e propria fuga.
Ora, la domanda fatidica: cosa possiamo fare davvero per incentivare una mobilità lavorativa che non derivi da costrizione, necessità o sfiducia?
Migliorare ed aggiornare costantemente i CCNL, facilitare il rientro e la seconda uscita in e dalla Patria per i lavoratori che già si sono stabiliti all’estero, rafforzamento dei rapporti diplomatici con nazioni che aderiscono ad iniziative di scambi culturali tra università e licei.
O ancora, incentivare lo smart working internazionale, istituire albi ufficiali nazionalmente riconosciuti per tutte le mansioni più giovani.
Il talento c’è, la voglia c’è, le idee ci sono. Ciò che sembra mancare è la voglia da parte degli organi competenti, di portare l’Italia che lavora nel 21^ secolo. Camelot è solo una delle tante voci (per ora) che chiama il cambiamento a pieni polmoni,ma insieme possiamo diventare assordanti, dovranno per forza sentirci. Il Dream Job dell’italiano che lavora potrebbe essere sotto casa, per altri però, va ricercato in altre latitudini, e Camelot vuole che l’opportunità sia paritariamente raggiungibile per tutti, sia in termini di costi, che in termini burocratici.
Ci auguriamo che questa riflessione sia sempre più condivisa, sempre più concordata, e sempre più vicina a diventare la base di partenza per un lavoro soddisfacente e valido, sempre.
Buon lavoro.