Si dice sempre che i tempi difficili forgino grandi persone. Quello che il titolo dell’articolo di oggi vuole suggerire è quanto emerge dalla fusione di dati ufficiali, analisi individuali varie e un po’ di filosofia intrinseca al contesto. Non è un segreto che il mondo del lavoro sembra funzionare al contrario in alcuni casi, e non è un segreto il fatto che qualunque tentativo di cambiare le cose (nota bene: non di invertire il trend) molto spesso viene recepito come un sogno puerile o un delirio utopico. Restiamo ancora un attimo con i piedi per terra: sappiamo tutti che i lavori che hanno un impatto sociale maggiore, che significano spesso la salvezza per molte persone, siano al contempo quelli che garantiscono una remunerazione minore. Ebbene, quest’oggi vogliamo riportare alcune riflessioni avanzate in un articolo di un’ importante testata giornalistica mondiale, e aggiungere a queste ultime il nostro “ragionamento camelottiano”.

“Tanto già lo fai per passione…”

La riflessione si incentra su una domanda molto importante:

perché le mansioni più socialmente utili, ai limiti dell’eroismo, sono spesso sottopagate?

La risposta è stata articolata in cinque punti, che possono riassumersi in alcune affermazioni poco felici ma che, purtroppo, sono vere. Si parte identificando i mestieri di questa portata sociale, quindi sicuramente includeremo infermieri, badanti, guidatori di veicoli d’emergenza, insegnanti, assistenti sociali, vigili del fuoco, babysitters e via discorrendo; ognuna di queste mansioni ricopre un ruolo importante nella formazione e nel mantenimento della società, cosa che sfortunatamente risulta poco remunerativa, dato che spesso le persone più fragili sono quelle con meno accessibilità economica. Ne deriva quindi un’opposizione diametrale in termini di valore sociale ed economico delle mansioni in questione: una persona che percepisce una pensione, una pensione di invalidità, o un mantenimento dovuto a problemi di salute potrà permettersi una spesa minima per mantenersi sano (o quantomeno non peggiorare) e un assistente sociale che fornirà servizi di accompagnamento e tutela verrà pagato e valutato a livello economico per la cifra media che può potenzialmente percepire.

 Con quest’ultima affermazione, diviene palese come tutte le altre motivazioni portate all’attenzione comune dall’articolo menzionato siano collegate a questa terrificante prospettiva incentrata sul potenziale ricavo economico che una mansione garantisce, piuttosto che sul concreto valore del servizio erogato. Complice di questo disgustoso mindset è l’impossibilità effettiva di attribuire uno standard al lavoro in generale: non si può definire correttamente e universalmente quale mansione dia più valore sociale rispetto a un’altra, soprattutto a seguito delle controversie nate riguardo alla monetizzazione delle passioni (che spesso vengono definite “non un vero lavoro” da chi non ha molto di cui gioire nella propria vita lavorativa). Verrà detto (e viene già detto fin troppo!) a un artigiano, un intrattenitore o a un’artista che la loro “pretesa” di guadagnarsi da vivere con la loro passione è eccessiva, perché a loro, di fatto, piace il loro lavoro. 

Ecco la terza motivazione: la presunzione intrinseca da parte di menti un po’ più arretrate che il lavoro debba necessariamente corrispondere a fatica, stress, intolleranza, rabbia e sopportazione, altrimenti “non è un vero lavoro e non merita una remunerazione adeguata”, come se venissimo sadomasochisticamente pagati per soffrire da qualche ente che quantifica monetariamente il dolore umano. 

 

Le ultime 2 motivazioni si accorpano nel fatto che, come i mestieri socialmente utili orientati alla cura e al mantenimento sono rivolti principalmente a poveri, malati e svantaggiati, le mansioni terziarie avanzate quali manager, consiglieri aziendali e presidenti di conglomerato sono socialmente inutili ma si rivolgono a una clientela che tendenzialmente offre compensi molto lauti per i servigi richiesti. 

Ecco che, dal già critico mismatch lavorativo, deriva un mismatch economico-sociale, e (opinione) un mismatch etico-antropologico. Ecco che ci troviamo sempre più spesso a leggere di medici che cambiano settore, di insegnati che dormono in auto, di completa mancanza di candidati in alcuni settori fondamentali per la sicurezza e il mantenimento della società.

In Conclusione

Nonostante i motivi per cui paghiamo meno chi ci serve più disperatamente siano stati snocciolati ed esaminati, restiamo tutti con l’amarezza per il modo in cui si concepisce il valore di una mansione, che come ogni altra cosa in questo mondo, è proporzionale ai soldi che può far girare. La conclusione dell’articolo da cui abbiamo voluto trarre spunto è talmente semplice ed al contempo efficace, che ammetto di preferire trascriverla sotto forma di citazione, dato che non potrei tracciare un’impronta così genuina, diretta e veritiera. Si faceva un confronto tra un medico o un vigile del fuoco ed un social media manager di un importante brand nel momento in cui si fossero posti la classica domanda “chi me lo fa fare?“, dove un VVF avrebbe poco da riflettere, data la portata concreta ed immediata del suo impatto sulle vite altrui, mentre il secondo avrebbe più spazio di manovra riflessiva, percependo però molto probabilmente il quadruplo rispetto al primo:

“Con l’aumentare dell’età media, del welfare, della burocrazia, degli apparati di sicurezza ci sarà sempre più bisogno di queste figure – anche perché sono le meno automatizzabili. Ciò però non dà alcuna garanzia che in futuro saranno più remunerate e apprezzate. Anzi, rischiamo sempre più di vivere in una società duale, dove certi tipi di lavori, quelli socialmente più utili, vengono affibbiati alle classi sociali più basse in forme lavorative di para-schiavitù, mentre quelli più vacui, poco utili o persino deleteri per la collettività rimarranno appannaggio delle classi più agiate e istruite.

Eppure, proprio la stima sociale e il reddito che ottengono grazie al loro lavoro gli rende più difficile lasciarlo. Così, si affoga l’angoscia con una pizza portata a domicilio da un immigrato o con un giro di aperitivi serviti da qualche giovane mamma single. Almeno fino a che non si ha bisogno di un ospedale.”

Ovviamente, questo è solo uno dei futuri possibili, magari proprio quello in cui continuiamo a considerare il valore economico e la potenziale rendita come i capisaldi da cui poi valutare l’apporto umano in una data mansione, il suo compenso o la sua disponibilità in termini umani. Ecco perché in Camelot premiamo sempre e spesso sull’incidenza del desiderio e del sogno nel mondo del lavoro: chi vuole solo guadagnare tanto, può farlo; spesso però, questo non vuol dire affatto che la sua vita personale e lavorativa saranno soddisfacenti. Ciò che conta, oltre all’impatto sociale di ciò che andiamo a svolgere, è la nostra voglia di fare quella mansione, valore unico e perfettamente quantificabile per ciascuno di noi, valore che mai ci deluderà e mai verrà usato per caricare il pensiero comune di mostruosità distopiche soldo-centriche. 

Come sempre: buon lavoro.