Un ripercorso della storia imprenditoriale del nostro Paese da parte dell’ex direttore di Banca d’Italia, Salvatore Rossi, dattilografato e pubblicato dal giornalista Paolo Bricco evidenzia alcuni punti di forza, alcune peculiarità ed alcune mancanze del sistema economico, imprenditoriale e professionale dell’Italia dalla Repubblica ad oggi. Il sunto del discorso orbita intorno all’atipicità industriale nazionale: le grandi imprese sono praticamente sparite dai nostri territori, oppure conservano un pallido e insignificante ricordo distorto della loro provenienza in inconsistenze come il logo o la “lingua aziendale” (mentre sedi e operatività sono insieme a tutte le grandi imprese, in Cina o in paesi in cui non serve preoccuparsi di tutelare i lavoratori o l’etica umana). Ovviamente, non è stata una decisione voluta, ma una decisione forzata da uno Stato che, come è ben noto ai suoi cittadini, dissangua i suoi cittadini più di una sanguisuga, prosciugando le riserve economiche di una Nazione per risanare la bancarotta di una banca o per promuovere l’ennesimo ddl senza criterio o per elargirle in progetti che, come un boomerang, ritornano dopo essere stati lanciati, solo per colpire duramente sui denti l’autore del lancio. In tutto il marasma, sembra che solo le piccole e medie imprese siano riuscite a reinventarsi, come per dichiarare la loro resilienza e fluidità. Molte di queste PMI sono industrie. Secondo Rossi, sono state proprio le industrie e le PMI in generale a permettere all’Italia di non arrivare ultima alla corsa all’innovazione. C’è però molto da correggere e da rifare, a seguire infatti, un piccolo stralcio della situazione politica attuale ed una significativa osservazione ce ne forniranno un assaggio.
“Serve coesione e collaborazione”
L’Italia ha detto addio alle grandi imprese diversi anni or sono. Nel rimarcare l’ovvietà, ovvero che tassazione e “buon lavoro” non sono complementari né vanno di pari passo, rimane comunque premura di queste grandi imprese mantenere ciò che non conta a livello economico, ovvero branding e segnali di riconoscimento, tutti italiani.
Questo è un segnale ed un conferma: che il Made in Italy piaccia, interessi e coinvolga era ben noto a tutti, che non venga tutelato né incoraggiato (anzi!) è una notizia quantomeno bizzarra, considerando che con l’attuale Governo, è stato costituito un Ministero atto a promuovere e tutelare il Made in Italy.
Se da una parte ci troviamo davanti un Governo che elargisce fondi d’emergenza come coriandoli, lanciandoli in progetti che torneranno a spaccarci i denti come un boomerang (basti pensare al superbonus 110% che, nonostante fosse destinato al risollevamento economico italiano, altro non fa che far circolare importanti flussi economici nel nostro paese senza beneficiare chi ne avesse davvero bisogno), da un’altra c’è la forte coesione che si sta addensando sempre più tra settori formativi come università ed accademie, imprese ed imprenditori che stanno cercando di portare alta la bandiera dell’ “Industria 4.0” anche in un paese come il nostro, dove le materie prime per lo sviluppo di questo settore sono pressoché irreperibili, al contrario dei colossi cinese e statunitense.
Basta dare una rapida occhiata alla scena politica, anche e soprattutto in vista delle elezioni europee, per capire che nessuno ha davvero a cuore gli interessi del popolo italiano: mentre l’Italia che governa è impegnata a discutere sui tappi staccabili dalle bottigliette di plastica e su quale nazione bombardata meriti di essere aiutata e quale no, l’Italia che lavora e l’Italia che studia e ricerca stanno compiendo passi da gigante verso una fase successiva della nostra evoluzione umana. Riportando le parole di chi ne sa infinitamente più di me e sa inoltre tradurlo meglio e più sinteticamente in parole:
“Serve, insomma, una collaborazione tra tutti i soggetti in campo: La pubblica amministrazione efficiente, un sistema imprenditoriale aperto e collaborativo e una ricerca di livello internazionale per innescare un circolo virtuoso attrattivo, coinvolgendo imprese, università e centri di ricerca pubblici e privati”
–Ferruccio Resta, ex Rettore Politecnico di Milano, Pres.Fondazione Kessler


In Conclusione
Un ragionamento che mira ad unire sotto la bandiera della conoscenza tutti gli aspetti del fare e del sapere nazionali, specialmente in vista di questo grande passo che accomuna un approccio sempre più tecnologico all’industria e all’impresa in generale, ma che deve necessariamente considerare una transizione ecologica di massa, senza sacrificare lavoro né pianeta, ed estendendo lo spirito di collaborazione ad ogni ingranaggio della grande macchina capitalistica che è la società globalizzata attuale.
Come sempre: buon lavoro.