In un video pubblicato su TikTok, una user italiana col nickname di “avventureconilaria” ha pubblicato un video che fa riflettere: nella sua semplicità, ha sottolineato indirettamente quello che per noi è nato come chiodo fisso, chiedendosi (e invitando a chiedersi) per quale motivo le persone vengano quasi indotte forzatamente a pensare di dover amare il proprio lavoro. Approfondiremo il contenuto a seguire.
“Amare qualcosa che è solo una necessità?”
Nel video in questione, Ilaria sostiene che, essendo il lavoro un semplice costrutto della società entrato in vigore dopo la Rivoluzione Industriale, l’idea del suo aspetto nobilitante e la soddisfazione che potrebbero portare sono perlopiù una forzatura che ci è stata imposta collettivamente, con la minaccia di risultare sfaticati, assenteisti, in generale “brutte persone” dai nostri pari qualora non la pensassimo tutti allo stesso modo.
Consiglia inoltre a coloro che sono stanchi di non ottenere ciò che vogliono dalla loro vita lavorativa, di inseguire le proprie passioni soprattutto all’estero. Ilaria svolge una mansione non meglio specificata che le permette di operare da remoto dall’estero (al momento lavora in Brasile). Una riflessione giusta, ma forse troppo amara o troppo carente di determinazione: è verissimo, abbiamo affrontato anche nel nostro Podcast come l’Italia sembri scoraggiare il sognare delle nuove generazioni che approcciano al mondo del lavoro, non in maniera diretta ma attraverso una politica di inazione che inasprisce gli animi dei più, e che sostituisce la creatività con il cinismo in alcuni casi. Se da un lato il guardarci intorno sembra oscurarci i pensieri, va comunque considerato come e quanto molte realtà aziendali private e pubbliche del nostro Paese stiano intraprendendo un cambio di rotta verso un’evoluzione professionale a tutto tondo.
Ora, premesso che la riflessione di Ilaria è a mio avviso giustissima, tengo a sostenere una “terza opzione” che purtroppo, per abitudine all’accontentarsi, al non farsi sentire e al voltarsi dall’altra parte che la realtà lavorativa passata ci ha inculcato, tendiamo a non considerare:
E se ci fossero delle vere ragioni per amare ciò che si fa? Perché dobbiamo partire dal presupposto che noi candidati dobbiamo cercare una scappatoia alle realtà professionali più asfissianti? Badate, il benessere personale che può e deve scaturire anche dal benessere lavorativo non sono dei benefit, non sono delle plusvalenze dello svolgere un buon lavoro, non sono piccole gemme inestimabili che sta a noi dipendenti e candidati cercare come il Sacro Graal. Queste sono le semplici fondamenta di una realtà che noi di Camelot, insieme ai nostri candidati e a tutti coloro che credono nella nostra Quest, dobbiamo continuare a gettare, in vista di un cambiamento che richiederà tutta la nostra risoluzione.


In Conclusione
Ovviamente, siamo visionari e sognatori, ma non siamo con la testa tra le nuvole. Alcune mansioni esistono e dovranno continuare ad esistere per il progresso della collettività umana, anche se risulteranno il sogno di una manciata di persone in tutto il mondo. Non dobbiamo necessariamente amare ogni mansione che svolgiamo o che abbiamo svolto, né amare ogni aspetto di quelle per cui ci candidiamo: è fondamentale che tutti abbiano la possibilità di inseguire il proprio sogno, ma anche laddove si ripiegasse, nei pochissimi casi in cui si verifichi una circostanza simile, la mansione dovrà in ogni caso garantire il più alto grado di soddisfazione possibile e dovuto a ciascuna risorsa di cui dispone, proprio per permettere a coloro che svolgono le mansioni più gravose o complesse di beneficiare sempre e comunque della maggior parte degli aspetti della propria professione.
In sostanza: non deve piacere al 100% il 100% dei lavori, ma il 100% dei lavoratori deve potersi definire soddisfatto della mansione che svolge. Nessuno è tenuto ad amare qualunque lavoro svolga. Nessuno merita di odiare il proprio lavoro.
come sempre: buon lavoro.