Sapevate che la storiella de “I giovani non vogliono più lavorare” è in voga sui giornali da almeno 80 anni? Sembrerà assurdo, ma già a partire dai baby-boomers (nati tra il 1946-1965), sembra che ogni generazione accusi quella a venire di mancanza di dedizione al lavoro. Rompiamo qualche luogo comune.

Cambiano i tempi, cambiano la società e l’individuo, ma il problema è sempre lo stesso: i giovani che non hanno voglia di lavorare. I nostri predecessori che tanto osannano il lavoro vecchio stampo, forse non sanno che i loro predecessori lamentavano la stessa insolenza lavorativa che ora viene vista nella Gen Z,  e Millennials. Tra le possibili cause, la più gettonata è la versione secondo la quale negli ultimi decenni, il lavoro è passato dall’essere un concetto nobilitante, un rifugio sicuro da qualsivoglia forma di negatività personale, a un peso, un fardello che va necessariamente portato avanti, come il macigno che Sisifo sospingeva eternamente su di una montagna, al solo scopo di andare avanti, condannato dagli dèi dell’Olimpo per aver osato mettere in dubbio il loro giudizio.

 

La drammatica verità è più semplice di quanto si possa pensare: sembra scaturire tutto da un piccolo seme, che germoglia e spiralizza un ciclo nefasto che, pian piano, rende tutto cinico e spento.

Mi spiego meglio: a mio avviso, sembra che tutte le persone che “non hanno voglia di lavorare” siano sempre giovani, non per una sorta di rivalsa generazionale dei cosiddetti “boomer” (che erroneamente vengono inclusi in Gen X e Millennial talvolta), non per il decadimento culturale che si sta inspessendo di padre in figlio, di anno in anno; Il problema è la “questione creativa”.

Per intenderci, sembra che ci sia un determinato processo psicologico in molte persone che le porta a non volere cambiamenti, specialmente se si tratta di miglioramenti. Ho notato questo processo emotivo seguendo le battaglie burocratiche negli U.S.A. sulla questione del debito studentesco (senza dilungarci troppo e rimanendo in tema, diverse figure di spicco si sono espresse contrarie a cancellare il concetto di ‘debito studentesco’ in quanto vedevano solo una vanificazione dei loro sacrifici, piuttosto che un passo avanti per coloro che sono venuti dopo), e confrontando le due situazioni, i dibattiti che suscitano e le convinzioni di chi risponde, sembra opportuno comparare queste situazioni.

Se per potermi permettere una casa ho dovuto passare 25 anni in fabbrica a spaccarmi la schiena, deve essere così anche per te“, di base è questo il ragionamento. Ciò che non viene considerato è che ogni generazione di “usciti da scuola“/”col pezzo di carta”  ha dei sogni, talvolta anche molto specifici, e non ha intenzione di rinunciarvi. Solo perché il più delle persone lo hanno fatto e si sono lasciati convincere che “il lavoro nobiliti l’uomo”, non hanno il diritto di prendersela contro chi non vuole seguire i loro passi, soprattutto perché il “premio di consolazione” diventa sempre più effimero con ogni anno che passa

Come abbiamo esaminato in alcuni articoli precedenti, se trent’anni fa bastavano quindici-vent’anni di fabbrica per comprare una casa, un’automobile e per mettere su famiglia, ora i prezzi sono centuplicati, ed il divario tra stipendio medio netto e prezzo d’offerta di ogni mercato rilevante è quasi incolmabile. 

Siamo al punto di rottura: ormai nessuno spera più di raccogliere i frutti del suo lavoro, perché sa che molto probabilmente la sua fatica nobilitante e prosciugante non varrà nulla, se non la possibilità di arrivare al mese successivo.

 

Per quanto sembri un discorso avvilente, forse un po’ pessimistico, il mio intento è quello di sottolineare il motivo principale per cui “i giovani non hanno più voglia di lavorare” : è perché prima il lavoro toglieva tempo e salute, ma restituiva soddisfazione, status e stabilità. Ora il lavoro toglie tempo, salute, talvolta dignità ed integrità, e restituisce la possibilità di continuare a farlo fino alla pensione; è solo umano l’atto di cercare quantomeno di vivere un inferno ciclico che abbronzi o scotti, piuttosto che ustionare o bruciare.

In ultima analisi , tengo particolarmente a precisare che questi articoli, talvolta acri o persino acidi, non hanno come obiettivo quello di generare malcontento, né io autore cerco di ergermi ad agitatore o a filosofo. L’obiettivo è e sarà sempre la Vision di Camelot: creare un ecosistema sinergico che contribuisca alla piena e soddisfacente occupazione, diffondendo il valore della formazione continua, personale e professionale, fino a renderla un aspetto sistemico della società. Il lavoro deve essere soddisfazione e raggiungimento di traguardi, non occupazione angosciosa delle nostre giornate. Il lavoro deve essere la nostra fonte di ispirazione, non un enorme meccanismo di cui diventare minuscoli ingranaggi. Il lavoro deve, in sostanza, essere un buon lavoro